sabato, Marzo 22Città di Vittoria
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Omaggio ad Arturo Di Modica, un genio visionario.

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Il 29 aprile 2022, a Palazzo La Rocca di Ragusa, l’amico prof. Arturo Barbante ha ricordato il grande artista con una conferenza intitolata “Arturo di Modica. Il sogno italo-americano”, conferenza arricchita da eloquenti diapositive. E così, spinto da quel bel lavoro (di cui gentilmente Arturo mi fece avere le diapositive), mi convinsi che era venuto il momento di mantenere la mia promessa. Conosco la famiglia del fratello dell’artista dai primi anni ‘60, perché abitavamo accanto in via Amalfi a Scoglitti e passavamo l’estate da buoni vicini, con la moglie ed i figli di Rosario Di Modica (morto giovane in un incidente stradale). E ricordo che un giorno d’estate (forse luglio o agosto dei primi anni ‘60), mentre ero fuori, vidi entrare a casa dei Di Modica-Ferraro un giovane barbuto di cui poi seppi che abitava a Firenze. Né io né i suoi familiari né altri avremmo potuto mai immaginare che quel giovane barbuto avrebbe lasciato di sé con il suo “Toro” un’impronta paragonata dai critici per la sua immediata riconoscibilità e impatto artistico a quella dei “Girasoli” di Van Gogh o de “L’urlo” di Munch (e io aggiungerei al “David” di Michelangelo), visto che il suo “Charging Bull” (“Toro all’attacco”) è l’opera più visitata a New York ogni giorno, con lunghe file di turisti davanti e c’è chi dice che ormai avrebbe superato per numero di visitatori persino la Statua della Libertà. Diventato notissimo dopo il blitz del 15 dicembre 1989 quando scaricò il Toro da tre tonnellate e mezza davanti alla borsa di Wall Street sotto un albero di Natale, ebbi occasione di incontrarlo di persona grazie all’amico Gianni Molé, che nel 2008 organizzò una mia visita (allora ero assessore alla Cultura) al suo Parco alla periferia della città, tra Fanello, Pozzo Bollente e Marangio. Pur non avendo girato tutta la proprietà, rimasi fortemente colpito dalla grandiosità della Galleria-Laboratorio sotterranea e delle altre opere allora in costruzione, ma fui soprattutto sorpreso dai grandiosi progetti cui il Maestro accennò durante l’incontro, relativi alla realizzazione nel Parco di una Scuola Internazionale di Scultura ed all’accenno alla notizia che proprio allora aveva fuso o stava fondendo un altro “Charging Bull” da sistemare ad Amsterdam, se non ricordo male. Quel giorno ebbi l’idea di trovarmi di fronte ad un gigante e mi sentii quasi a disagio per la mia “piccolezza” di fronte ad una personalità così esuberante. A quella visita però non seguì alcuna mia iniziativa concreta come amministratore perché poco dopo mi dimisi dalla Giunta Nicosia per motivi personali. Continuai però a seguire la sua attività, fino all’annuncio (con manifesti pubblici) nel 2020 dell’arrivo a Vittoria dei prototipi di 8 metri dei due Cavalli Ipparini che in grandezza di 40 metri voleva sistemare nella Valle dell’Ippari. Vittoria aveva avuto già in dono nel 2001 un suo cavallo bronzeo, sistemato prima alla Villa poi portato in Piazza Italia. Nonostante questo, per me Arturo Di Modica continuò a rimanere un perfetto sconosciuto. Fino ad oggi, quando mi sono riproposto di sapere chi fosse veramente.

Ho pertanto pregato l’amico Barbante di farmi avere copia delle sue diapositive, mi sono procurato alcuni articoli di stampa pubblicati subito dopo la sua morte nel febbraio 2021, mentre utilissimi si sono rivelati i due lunghi articoli scritti da Tiziana Blanco sulla rivista on line “Libreriamo.it” (dicembre 2022 e febbraio 2023), l’autobiografia con catalogo che nel 2014 gli pubblicarono  Giuseppe e Arrigo Cipriani (quelli del famoso ristorante newyorkese): tutto materiale fornitomi dai nipoti dello scultore. Infine, per la cortesia del suo agente Jacob Harmer, ho potuto prendere visione del volume pubblicato nel 2020 dalla casa editrice inglese Bruton intitolato “Arturo Di Modica. The Last Modern Master”, di cui non esisterebbero più copie perché (non so se crederci o meno) secondo Harmer lo stesso Di Modica le avrebbe bruciate tutte. Ed ecco quindi il percorso della mia personale scoperta di un grande artista internazionale nato a Vittoria il 26 gennaio 1941, che volle tornare a Vittoria per amore, per lasciare una grandiosa eredità culturale e dove morì il 19 febbraio 2021. 

Parte I. Il decennio fiorentino (1960-1970)

Tiziana Blanco, nella sua minuziosa ricostruzione fatta di raccolta di testimonianze dei familiari, amici, critici d’arte e di quanti è riuscita a contattare, divide la storia della vita artistica di Di Modica in quattro tappe:

-gli esordi, la formazione a Firenze e l’incontro con Henry Moore

-i quarant’anni a New York e le tre forti provocazioni con i “blitz” notturni (1977, 1985, 1989)

-l’evoluzione artistica con le eleganti sculture in acciaio lucido

-il “folle” dono alla sua terra: la Scuola del Nuovo Rinascimento e i due monumentali Cavalli.

Secondo la Blanco, Arturo Di Modica sarebbe stato «poco incline agli studi» ed anziché stare per delle ore chiuso in un’aula, appena poté chiese al padre di frequentare le botteghe artigiane della città, rimanendo ammirato dal vedere intagliare i carretti e intrecciare cesti. La vicinanza poi con l’area archeologica di Camarina, la frequentazione del centro storico di Siracusa (dove poi svolse il servizio militare) lo avrebbero messo nelle condizioni di conoscere ed apprezzare non solo l’arte greca ma anche Caravaggio (il cui quadro del “Seppellimento di Santa Lucia” era a pochi passi dal Duomo). Arturo Barbante precisa invece che subito dopo la Terza Media avrebbe cominciato a lavorare presso un’autocarrozzeria cittadina, sottolineando il ruolo formativo del “saper fare” artigiano delle antiche botteghe. Jacob Harmer, nell’Introduzione al volume biografico di Di Modica “The Last Modern Master”, scrive che «nato in un piccola città della Sicilia era cresciuto in mezzo ai resti dei Greci e dei Romani, che lo educarono alle immense possibilità dell’ambizione umana» e «il fascino delle civiltà antiche fu così grande che cominciò a non frequentare più la scuola e a 18 anni scappò a Firenze», consapevole che il padre non concepiva questo suo desiderio di diventare un artista.

Secondo quanto scrive Valeria Bruni (“The Last Modern Master”), Di Modica sarebbe stato molto condizionato dal passato del territorio, compreso tra i fiumi Ippari e Dirillo, con interessanti scoperte di tracce dell’Età del Bronzo nella valle. Secondo la studiosa, Arturo Di Modica avrebbe avuto «il sogno di rivedere l’Ippari nel suo antico ruolo navigabile, con la leggenda dei cavalli ipparini. Questa “leggenda” a mio avviso potrebbe trarre le sue origini dalle scoperte degli anni ’50 a Camarina e nel territorio di Vittoria ad opera di giovani come Attilio Zarino e Giovanni Uggeri ed alla creazione di un Antiquarium ad opera della Pro-Loco. Qualche dubbio sulla fuga a Firenze mi viene però dal fatto che sarebbe scappato a 18 anni, ma che poi avrebbe fatto il servizio militare a Siracusa. Probabilmente davvero scappò a Firenze, dove si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti e frequentò i corsi della Scuola Libera del Nudo, facendo vari lavori per mantenersi (tecnico di radiologia in un ospedale, meccanico in un’officina), ma questo dovette accadere dopo che finì il servizio militare, che allora si faceva a 21 anni: quindi nel 1962 Arturo Di Modica doveva per forza essere tornato in Sicilia e precisamente a Siracusa. Finito il servizio militare tornò a Firenze, dove continuò a frequentare i corsi. La stessa Bruni, scrive che il giovane -indirizzatosi verso l’astrattismo- avrebbe ricevuto nel 1960 il Brasilia Price ed un premio a Roma nel 1962 dedicato ai giovani artisti, notizie confermate entrambe nel Catalogo Cipriani, ma delle quali nulla sappiamo. Della presenza di Arturo Di Modica a Vittoria nel settembre 1964 parla Arturo Barbante, tra gli artisti della “1a Mostra d’arte figurativa” (in via Cavour 105). Con Di Modica (che assunse però il cognome di Renuardi per distinguersi da un altro Di Modica) esponevano lo stesso Barbante, Giovanni Rosario Biscari, Francesco Cesareo, Turi Cucchia, Giovanni Di Modica (per questo motivo era spuntato Renuardi), Pietro Palma e Alfredo Parisi. Lo pseudo-Renuardi Arturo Di Modica presentò un’originale scultura, intitolata “L’albero degli incubi”, ricoprendo e lavorando con il bronzo rami secchi d’ulivo. Secondo la Bruni, le sue prime opere sono influenzate dai colori del paesaggio siciliano, da forme arcaiche (greche?) e soprattutto da Carrà, Campigli, Morandi. Allo stesso modo le sue piccole sculture in bronzo evocherebbero forme greche (cicladiche?). La Firenze degli anni ’50 e ’60 -secondo la studiosa- viveva un nuovo Rinascimento, con la presenza di numerosi artisti da tutto il mondo, fra i quali molti americani che lo incuriosirono molto e soprattutto Henry Moore, che lo avrebbe molto influenzato. Nella carrozzeria di Firenze dove lavorava per mantenersi e dove imparò a fondere, raccontava di aver fatto il suo primo bassorilievo di getto, mentre riparava un’auto, modellando il ritratto del cliente nel paraurti con un martello. Guadagnando così 40.000 lire da parte del cliente, rimasto colpito dalla sua abilità (secondo un’altra “leggenda”, anche il radiologo cui bruciava le lastre per imperizia gli avrebbe acquistato un’opera…). Secondo quanto riferì lo stesso di Modica al giornalista Nello Correale, alla fine del corso di Nudo Libero, i suoi professori gli dissero che gli avevano insegnato tutto quello che potevano e che era venuto il momento di tornare a casa. Ma Di Modica non se lo sognava neppure di tornare a Vittoria. In sodalizio con Alfio Rapisardi e Angelo Vadalà espose a Piazza della Signoria, ma con le sue sculture ed i suoi nudi sembrò così eccentrico che i professori a quel punto gli suggerirono di andare in America. Scrive Tiziana Blanco che Di Modica nella sua pittura (cita cinque quadri realizzati tra il 1964 ed il 1968) arrivò a sperimentare l’utilizzazione delle pale secche di ficodindia, «sfruttando la particolare struttura interna simile ad un reticolo. Applicando sulla tela o sulle tavole questi reticolati, stendeva le pennellate di colore creando l’effetto materico desiderato». Secondo il Catalogo Cipriani, «tra il 1962 ed il 1969 fece numerose mostre a solo attraverso l’Italia (Galleria Marguttiana e Galleria del Babbuino a Roma; Galleria Lippi, Galleria Michelangelo e Galleria Falsetti a Firenze; Galleria “Il Corso” di Perugia); Galleria La Lanterna a La Spezia e alla Galleria Vincenziana a Milano) ma la più importante fu quella di Villa Medici nel 1968». In questo periodo egli realizzò piccoli bronzi, fusi nella sua fonderia domestica (dove arrivava a fondere fino a 100 kg di bronzo per volta), rappresentando sia figure che astrazioni, come nei suoi quadri ad olio. In questo periodo cominciò a frequentare spesso Carrara, alla ricerca di marmi, mentre nella fonderia Nicoli creava i suoi bronzi e proprio a Carrara avrebbe conosciuto Henry Moore che, fortemente impressionato dalla sua personalità lo avrebbe chiamato «il giovane Michelangelo».

L’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 fu una svolta. Il suo studio fu allagato e molte opere di Arturo andarono distrutte. Secondo la Bruni, fu per lui un’occasione per riflettere sul ruolo dell’arte (probabilmente anche facendo maturare in lui la convinzione che occorresse creare opere “indistruttibili”). Le sue figure divennero meno naturalistiche, come si vede in un Cristo non finito (ispirato dal Cristo di Cimabue che era stato gravemente danneggiato) con forme allungate e la testa che si fonde con la spalla: un Cristo che soffre…Il culmine del periodo fiorentino è rappresentato dalla sua mostra a Villa Medici, nel 1968, intitolata “Era Preistoria 68 della caratterale”. Il biglietto d’invito reca la sua foto del viso realizzata a collage, con la presentazione dello scultore Jack Frieling, che così lo presenta:

«L’arte di questo giovane pittore-scultore, ha un cordone che lo lega ad una radice del passato, e che da esso si nutre. Il punto attuale del problema è di trovare espressioni nuove per nuove idee, che si esprimeranno domani: “trovar la chiave del linguaggio della preistoria”. Naturalmente ogni cosa attuale e futura ha nel passato una radice. Su lui la pittura appare presente e notevole, dotata di una sensibilità cromatica inconfondibile. Ancor più impegnativa e ancor più riflessiva è la sua scultura, la cui materia diventa docile, si slancia, prende armonia e forma, come se veramente fosse cosa viva che si sprigiona dai fossili. Così l’artista siciliano stabilitosi a Firenze, produce opere che fanno riflettere e ragionare per la sua vibrante personalità artistica». Nella mostra erano presenti sue opere in bronzo ed argento. Ma ormai Firenze gli aveva insegnato tutto e il passato artistico della città sembrava in qualche modo impedirgli di sperimentare forme nuove. E Arturo Di Modica nel 1970 decise che era venuto il momento di andare a New York…

Parte II. Il “rischio” nell’arte di un  «siciliano pazzo barbuto» a New York. Le statue al Rockfeller Center ed il Cavallo di San Valentino

A Firenze Arturo Di Modica aveva conosciuto una giovane newyorkese che sposò appena arrivato nella Grande Mela (quel matrimonio -secondo la Blanco- sarebbe durato solo cinque anni ma la moglie -di cui non viene riportato il nome- lo avrebbe introdotto negli ambienti che contavano). Nella biografia “The Last Modern Master”, Anthony Haden-Guest descrive l’atmosfera di Manhattan del tempo in cui Di Modica arrivò a New York. Allora l’arte americana ribolliva, scrive il critico. Pop, Minimalismo, Concettualismo imperavano ma molti artisti si spegnevano nella disperata ricerca di emergere. Oppenheim, Burden, Acconci, Carson ed altri avevano provato con gesti eclatanti a lasciare un’impronta di sé, senza riuscirci. Era anche il tempo della “Street Art” (definita allora dalle autorità “vandalismo”) e dei “writers” autori di “graffiti”. Secondo il romanziere Norman Mailer, un trio di stelle (Cay 161, Taki 183 e Junior 161) riempivano muri e pareti. Niente delle loro opere è rimasto -sottolinea il critico- a dimostrazione che nella fama di un artista ha un ruolo fondamentale la fortuna. La nuova generazione di “Graffitari” (Keith Haring ed altri) ebbe invece maggior fortuna, con la presenza di loro opere all’interno di importanti gallerie d’arte newyorkesi. In questo panorama cittadino Di Modica si tuffò, ma il suo Modernismo era «intagliato nel marmo bianco di Carrara». L’impatto di Manhattan sull’arte di Di Modica fu forte e chiaro. I suoi primi lavori di Firenze risentivano della sua ammirazione per Brancusi e Moore, ma lì lo scultore sentiva che «la storia ed il passato gli impedivano di esprimersi in forme nuove». Non così a Manhattan, dove il giovane Di Modica si sentì “liberato”. New York -sottolinea il critico- era il presente ed il futuro, anche se a Firenze aveva imparato il mestiere. Aprì dunque uno studio a Grand Street. Nel 1972 ritornò a Firenze, dove Henry Moore esponeva al Forte del Belvedere, andando ripetute volte a Carrara per scegliere i marmi da spedire a New York. Trattandosi di pezzi a volte di sei tonnellate che non entravano neanche nello studio, Di Modica cominciò a lasciarli fuori sul marciapiedi, davanti al suo studio chiamato “Grace Gallery”. Il critico si interroga poi se Di Modica abbia subito l’influenza di Basquiat ma conclude di non saperlo (anche se secondo un’altra leggenda, una volta avrebbe sorpreso Basquiat a dipingere sulla porta del suo studio). I primi anni ’70 passarono senza grandi risultati, con la produzione artistica denominata “Architectural form”, che utilizzava marmo, acciaio e bronzo. Pur vendendo qualcosa al di fuori del circuito delle case d’asta e delle gallerie d’arte, Di Modica aspirava ad altro: aspirava al riconoscimento della sua arte. Nel giugno 1977 espose per sei settimane 8 sculture monumentali a Battery Park. Ma nulla si mosse, nonostante decine di migliaia di persone avessero visto le sue opere. Telefonò allora a Hilton Kramer, critico del New York Times, lo informò della sua mostra e ne ebbe la scortese risposta «Non sono interessato». Fu allora che scattò nell’artista, per la rabbia, un disegno rischioso. Forse ispirato dall’esempio dei “graffitari” e consapevole del rischio che correva (dal carcere alle ferite o peggio) rifletté sul ruolo del “rischio” nell’arte e decise che doveva “rischiare” per fare emergere il suo nome. «In poche ore -scrive Tiziana Blanco- escogitò una mossa geniale: caricare otto imponenti sculture su dei tir e lasciarle arbitrariamente in un luogo molto transitato…davanti al Rockfeller Center». Calcolando in 5-6 minuti il periodo in cui non passavano auto della polizia, eluse la sorveglianza e fece scaricare 8 tonnellate di marmi (diventate poi ben 60 nella sua narrazione). I poliziotti accorsero con le armi spianate e Di Modica -allontanando da sé una pistola- spiegò in un ancora cattivo inglese ai poliziotti il significato del suo gesto, distribuendo i volantini della mostra a Battery Park. A mio avviso -visto quello che succede ora- dovette trovare dei bravi padri di famiglia i quali anziché sparargli avvisarono il sindaco Abraham Beame, che si precipitò sul posto per conoscere quel “siciliano pazzo barbuto”. Gli fece quindi fare solo una multa da 25 dollari e gli diede un permesso temporaneo per le statue. Quella che nell’autobiografia Cipriani viene definita «tecnica da guerriglia per le installazioni» ottenne finalmente il suo scopo. L’indomani, il New York Post e il Daily News titolarono a caratteri cubitali su quanto era successo, mentre il New York Times lo stroncava. Ma inutilmente: ormai Di Modica era diventato famoso, accorsero collezionisti ed acquirenti ed ogni pezzo della mostra fu venduto. Di Modica imparò la lezione sul suolo dei media: «E’ l’unico modo per attirare l’attenzione. Questa è New York. Qui puoi fare qualsiasi cosa» (Tiziana Blanco). Divenuto improvvisamente insufficiente il suo studio a Grand Street, Di Modica si mise alla ricerca del nuovo luogo dove lavorare. Secondo la leggenda (variamente riferita) avrebbe affittato un elicottero per perlustrare la città dall’alto ed individuare la zona più adatta per viverci e creare il suo studio. La sua attenzione si posò su un’area di edifici industriali dismessi, con grandi spazi vuoti ed inutilizzati. Il proprietario dell’edificio da lui scelto era convinto che non potesse pagarlo poi dopo molto tempo si convinse a cedergli l’immobile per 45000 dollari, con un acconto immediato di 5000. Di Modica si fece accompagnare dal suo avvocato, che gli sconsigliò vivamente di acquistare quell’immobile in un’area abbandonata. Ma l’affare fu fatto (e i soldi glieli prestò proprio l’avvocato). E così al 54 di Crosby Street “il siciliano pazzo barbuto” creò uno studio su due piani con materiali di risulta (e senza alcun permesso edilizio). Poiché i due piani non gli bastavano, chiese al Municipio di Manhattan il permesso per elevare di altri due piani l’immobile, ottenendo però un diniego. E allora, ancora una vota, Di Modica rischiò, scavando e costruendo quasi tutto da solo due piani sotterranei. Arrivata la cosa alle orecchie delle autorità, fu inviato un ispettore che fu tanto impressionato (così scrive Haden-Guest) dalla qualità del lavoro che la situazione venne sanata…In seguito realizzò un bar, dove organizzava “party d’arte” per i collezionisti. Scrive Arturo Barbante: «A SoHo cresce il mito dell’artista indipendente, al di fuori del circuito delle aste e delle gallerie d’arte. Si accorge di lui anche la stampa italiana. “Il Venerdì” del quotidiano “La repubblica” gli dedica alcune pagine e lo inserisce fra i dieci artisti italiani emergenti negli Stati Uniti. Le sue opere sono in sintonia con quelle di artisti che operano in Italia come Michele Cascella, Pietro Consagra, Arnaldo e Giò Pomodoro. [Artisti che] si allontanano dal figurativo e scelgono la forma libera del volume e della geometria. E’ una ricerca che libera la scultura dal figurativo classico, nasce l’arte urbana installativa».   

Nel 1984, vengono fusi un leone in acciaio lucido ed il primo Cavallo famoso. Scrive Haden-Guest che a Firenze Arturo aveva posseduto dei cavalli e ne aveva fatto alcune sculture. Il soggetto -secondo il critico- derivava dalla ricca presenza del cavallo nell’arte antica (i quattro cavalli di bronzo di San Marco) e in quella rinascimentale (Mantegna, Verrocchio, Gozzoli) e sarebbe stato soprattutto ispirato dal “Gran Cavallo” di Leonardo da Vinci, un modello gigantesco distrutto dai soldati francesi nel 1499. Il Cavallo del 1984 -nato dall’osservazione dei movimenti di un vero cavallo che con i suoi zoccoli aveva causato le proteste dei vicini con l’intervento della polizia-, realizzato in acciaio inossidabile, fu ospitato nella Trump Tower (ed in seguito venduto). Gustoso è l’aneddoto riferito dallo stesso Di Modica, secondo il quale Ivana Trump si era lamentata che i visitatori uscendo dall’ascensore venivano “turbati” dalla vista delle palle dell’animale; al che Di Modica aveva risposto che l’indomani sarebbe venuto a mettergli le mutande…. Un secondo Cavallo (del tipo “horse biting its tail, cioè “Cavallo che si morde la coda”) fu fuso e scaricato -naturalmente abusivamente- davanti al Lincoln Center il 14 febbraio 1985. Ma se il gesto del 1977 era nato dalla rabbia questo fu un gesto d’amore per la Città di New York e per tutti gli innamorati (una copia ridotta verrà poi venduta a Pavarotti). Haden-Guest riferisce la produzione del “Cavallo” ai grandi nomi dei cavalli dell’antichità: il Bucefalo di Alessandro Magno e a Sleipnir, il cavallo di Odino, ai quattro cavalli dell’Apocalisse. Ignora però forse la vera origine dell’idea, legata alla leggenda dei “cavalli ipparini” (su cui torneremo). Ma, giustamente, Haden-Guest nota una cosa: il Cavallo ha energia, la stessa energia che Di Modica infonderà al suo Toro…   

Parte III. “Charging Bull” ovvero l’apoteosi di uno scultore

Il sabato 15 dicembre 1989 New York venne a conoscenza della terza “forzatura” operata dallo scultore Arturo Di Modica, quel «pazzo barbuto siciliano», come lo aveva definito il sindaco Beame. Un gigantesco toro di 3,5 tonnellate di bronzo lungo circa 5 metri era stato scaricato nella notte sotto l’albero di Natale davanti alla Borsa di Wall Street. Stavolta però le autorità della Borsa (dirette dall’italo-americano Grasso) lo fecero togliere dalla polizia. Di Modica, avvertito, individuò dove era il toro, pagò una multa di 500 dollari per riaverlo e a seguito di un accordo facilitatogli dal giornalista Arthur Piccolo e dal sindaco Ed Koch, dal 20 dicembre 1989 il “Toro all’attacco” fu posizionato a Bowling Green. L’idea a Di Modica era venuta dopo il 19 ottobre 1987, il famoso Lunedì Nero, con il crollo della Borsa che da Hong Kong si diffuse in tutti i mercati mondiali, con ben 500 miliardi di dollari bruciati in una sola giornata a New York. Lo scultore allora volle contribuire alla rinascita, infondendo ottimismo e facendo dono alla Città che lo aveva accolto e poi fatto crescere come artista appunto della figura di un Toro, simbolo dei movimenti al rialzo in Borsa, mentre l’Orso indica quelli al ribasso. Secondo Tiziana Blanco, probabilmente Di Modica si ispirò ad un quadro del pittore statunitense William Holbrook Beard del 1879, che raffigura appunto “The Bulls and Bears in the Market”. Nel dipinto, l’artista raffigura «gli Orsi per simboleggiare gli investitori ribassisti, e i Tori per rappresentare gli investitori rialzisti, aggressivi». Da quel giorno, il “Charging Bull”, il “Toro all’attacco”, è la statua più visitata (e toccata!) ed avrebbe secondo alcuni superato per numero i visitatori persino della statua della Libertà, avendo surclassato anche la grande scultura in bronzo di George Washington inaugurata nel 1883 sempre a Wall Street. Di Modica lavorò 2 anni, fuse circa 3,5 tonnellate di bronzo, spese di suo 360.000 dollari e del suo lavoro fece dono alla Città di New York. Ma da allora il successo fu enorme. Scrive la Blanco: «Di Modica nel 1989 è un artista affermato, vende le sue opere ai più importanti esponenti del jet set newyorkese, circola in Ferrari, ha una casa particolarissima invidiata da tanti». La statua reca la firma dell’autore su uno zoccolo. Con la sua “energia”, il Toro fu un’iniezione di ottimismo in un momento difficile. Raramente un artista -se non forse i massimi dell’arte rinascimentale italiana- riuscì a dare un’opera d’arte perfetta nel momento storico giusto.

In quel 1989 caratterizzato anche dalla caduta del muro di Berlino Di Modica pensò di dedicare una grande scultura anche alla nuova Russia di Gorbaciov. Cominciò a lavorare ad un Orso, simbolo della Russia che però elaborò prima in una versione che interpretava il momento storico di una Russia “sottomessa”, dichiarando in un’intervista che era ora che gli Stati Uniti aiutassero la Russia nel suo cammino di riforme. Non se ne fece nulla e Di Modica lavorò alla sua idea di un Orso fino al 2013, quando lo realizzò non “sottomesso” ma “rampante e feroce” (anche questa una statua “presaga” del futuro…).

Nel capitolo finale del volume “Arturo Di Modica. The Last Modern Master”, intitolato “Visioni monumentali”, Jacob Harmer (dal 2012 suo rappresentante per la vendita della sua arte) scrive che se famosissimo in tutto il mondo è il Toro, quasi sconosciuta è la biografia del suo autore, che peraltro amava circondare di mistero la sua vita privata. Dopo il successo del Charging Bull, Di Modica -scrive Harmer- fu sommerso da richieste di galleristi e acquirenti e nella sua casa si svolgevano numerosi incontri (il Toro fu venduto nel 2005 a Joe Lewis, uno dei maggiori collezionisti ed organizzatori della Casta d’aste Christie’s, con un contratto milionario, a condizione che l’opera non venga mai spostata da Bowling Green, anche se Lewis pare abbia chiesto una quota dei diritti d’autore sui gadgets ed altro). Lewis inoltre acquistò altri due Tori e parecchie sculture, che oggi ornano due sue tenute in Florida e una nelle Bahamas. Nei primi anni ’90 Di Modica aveva stabilito uno stretto rapporto con Giuseppe Cipriani, proprietario del famoso ristorante. Lì pranzava e cenava, lì incontrava i collezionisti e lì esponeva le sue opere. Nel 1996, quando i Cipriani decisero di aprire un secondo ristorante a SoHo, il “Downtown”, Di Modica forgiò «col ferro le volute barocche dei tavoli, delle panche e del banco del bar…L’energia conservata dalla sua opera è tangibile a tutte le ore». Poi Arturo lavorò ad un terzo ristorante dei Cipriani «che ha il soffitto più alto del mondo, alla Grand Central Station. I binari che ha piantato sotto il pavimento davanti al banco del bar sono il rumore di fondo che si sente anche nel silenzio» (Giuseppe e Arrigo Cipriani, in “Arturo Di Modica. Sculptor of Power and Vision”, 2014). Dopo il Toro, riprodotto e venduto in tutte le misure, nel 1997 realizzò una grande Menorah di circa 5 metri per la sinagoga di Bowling Green (purtroppo poi rubata e fatta a pezzi e ricomparsa in parte in un’asta nel 2019, subito bloccata). Arrivarono anche i riconoscimenti delle autorità statunitensi: nel 1999 gli fu conferita la “Ellis Island Medal”, concessa prima di lui a numerose altre personalità, tra cui Mohammed Alì, Martin Scorsese, Frank Sinatra, Gregory Peck, Joe Di Maggio, Mia Farrow, Kirk e Michael Douglas e a ben sette Presidenti degli Stati Uniti.

L’11 settembre 2001 ancora una volta, il “Toro all’attacco”, pur coperto dalla polvere delle Torri Gemelle, sembrò stavolta sfidare il terrorismo, fornendo la sua “energia” per la ripresa di New York dopo quel colpo tremendo. La statua è stata scarabocchiata, danneggiata varie volte, ritenuta anche simbolo di arroganza e di maschilismo, ricoperta di lana e persino nel 2017 fronteggiata dalla statua di una ragazzina, per togliere la quale Di Modica dovette rivolgersi ai magistrati, ottenendo lo spostamento della statua e dopo la sua morte persino dalla statua bronzea di un gorilla. Ma dal 1990 il “Charging Bull” ha vita a sé, a prescindere dall’autore, come simbolo di forza, potenza, energia e “resilienza”, come oggi si direbbe con termine alla moda. E capostipite di un’infinita serie di altri Tori. Nel 2009 le autorità della Borsa di Shanghai gli commissionarono un Toro, che Di Modica però realizzò poco poco più piccolo di quello di New York ma più giovane e più forte.

La sua idea era di fare con i Tori un triangolo di pace e di fratellanza tra i popoli. Un terzo Toro doveva essere posizionato o nella City di Londra o in uno degli Emirati Arabi Uniti: la cosa non riuscì, ma nel 2012 un altro Toro fu collocato davanti alla Borsa di Amsterdam ed uno simile gli fu commissionato da Michel Perridon per una sua tenuta in Olanda (Perridon, divenuto suo grande amico, partecipò al funerale venendo col suo aereo personale da Rotterdam). La fama di Di Modica, la sua frequentazione col jet-set newyorkese gli diede occasione di cimentarsi con grande successo anche come “designer”. Dopo il lavoro per i Cipriani, Di Modica fu coinvolto in numerosi altri compiti di arredamento perlopiù di ristoranti e di appartamenti. Il più famoso fu l’incarico avuto da Roffredo Caetani (concessionario per la Ferrari e la Maserati a New York) di arredargli un appartamento di 1000 metri quadrati. Conoscendo l’eccentricità del tipo -come scrive la Blanco- Di Modica glielo arredò «in maniera stravagante: soffitto con travi a vista, lucernari, camino a legna in marmo, mattoni a vista alle pareti, pregiati pezzi d’antiquariato…Inserì la testa di un toro d’ottone nel muro del soggiorno, un imponente lampadario in ferro battuto e, sospeso dal tetto che si estendeva per tutta la lunghezza del soggiorno-sala da pranzo, montò un enorme tronco che fece arrivare da un antico frantoio della sua Sicilia»: cioè una “cianca” di palmento, a mio avviso..

Ma mentre lavorava all’infinita serie dei Tori, una volta scoperto di essere minato dal male, decise di dedicare le sue energie a Vittoria. Dopo l’accordo commerciale con Lewis, Di Modica nel 2012 vendette la sua casa a Crosby Street e si stabilì definitivamente nella città natia, dove aveva a poco a poco acquistato fino a 10 ettari circa di terreno con ulivi, tra Marangio e Fanello), con l’idea di farvi nascere una Scuola Internazionale di Scultura.    

Quando nel 2008 visitai il Parco, ancora era stata realizzata in parte solo la galleria-laboratorio, sopra la quale -come disse in un’intervista- doveva essere costruita con pareti in vetro la Scuola del Nuovo Rinascimento. A Vittoria però già Arturo Di Modica aveva dato un segno del suo amore con un Cavallo Ipparino, prima esposto alla Villa Comunale, poi portato a Piazza Italia. Si tratta dello stesso tipo detto “Horse biting its tail”, cioè “Cavallo che si morde la coda”, un cui esemplare in misura ridotta era stato donato il 12 ottobre 1998 a Luciano Pavarotti, in occasione del suo compleanno. Come già sappiamo, il Cavallo era stato già soggetto di sue sculture sin dal 1983, ma a poco a poco nella mente dell’artista cominciava a prendere forma una idea grandiosa…

Parte IV. Il Cavallo Ipparino e la Scuola Internazionale di Scultura a Vittoria

Domenica 28 ottobre 2001 alla Villa Comunale di Vittoria fu inaugurato il suo Cavallo, donato alla città. La tipologia è sempre quella del “Cavallo che si morde la coda” ma a Vittoria diventa il simbolo dei cavalli “ipparini” (qualcuno azzarda che si tratti di un cavallo “patataro”: niente di più lontano dall’idea Di Modica). Spostato in seguito a Piazza Italia (dove è ancor oggi), così -tra altre considerazioni estetiche- ne scriveva il prof. Alfredo Campo nell’opuscolo che accompagnò la cerimonia:

«…Non è la rappresentazione realistica di un evento, né l’imitazione del reale, ma l’interpretazione e la trasposizione artistica libera dello scultore, che rappresenta un cavallo esaltato nella sua vitalità, nel suo vigore formale, nel suo ritmo vorticoso, trionfante del suo stesso procedere, in uno stupendo accordo di piani e sbalzi plastici, valorizzati dalla raffinata ricerca di una luce costruttiva. Tutto è impostato su una diagonale sinuosa che sembra partire da sinistra per andare a destra e in alto, creando, in un legame tra la coda e la testa del cavallo, un cerchio completo che vibra nello spazio, mentre vengono evidenziati lo sforzo e l’agilità dell’animale, racchiuso in una plasticità volumetrica agitata ed accentuata, colta in un calcolato studio tecnico plastico-chiaroscurale, in cui la luce gioca un ruolo di primaria importanza». Insomma, pura energia…Ma si trattava solo di un frammento del grandioso mosaico che Arturo Di Modica stava allora cominciando a concepire per la sua Città: la realizzazione di due progetti: la creazione di una Scuola Internazionale di Scultura e l’esaltazione della Valle dell’Ippari, cui intendeva consacrare due giganteschi cavalli rampanti in bronzo alti 40 metri!

Ma andiamo con ordine. All’inizio dicevo che quando io visitai il Parco, vidi solo la galleria-laboratorio, ma da quel che dice Jacob Harmer il tutto fu completato tra il 2012 ed il 2016. Nel 2012 Harmer (venuto a Vittoria per proporsi come esclusivo rappresentante-venditore delle opere del Maestro) accenna solo al grande parco abbellito da palme e ulivi centenari e visita la galleria. Quando tornò nel 2016, accompagnando un importante collezionista, rimase stupefatto dal teatro con due sculture monolitiche in marmo di Carrara della Serie Musicale, alte circa 5 metri (una struttura che secondo Di Modica in estate avrebbe dovuto ospitare rappresentazioni teatrali e musicali) e ammirò le «grandi mani dello scultore che racchiudono un ulivo». Harmer, che -poco conoscendola- definisce Vittoria «una parte molto sonnolenta della Sicilia» così spiega le motivazioni dello scultore: «La sua idea era di creare una Scuola Internazionale di Scultura per attrarre studenti e persone da tutto il mondo per aiutare l’economia locale, con l’apprendimento delle tecniche di scultura italiane». La Scuola sarebbe stata la terza nel mondo, dopo quelle di New York e di Carrara. Come aveva già spiegato ai lettori di “Repubblica” il 20 agosto 2010 (articolo di Federica Molé) l’obiettivo di Di Modica era quello di «ospitare circa cinquanta promettenti giovani scultori provenienti da tutto il pianeta ed ospitati fra le bellezze architettoniche e paesaggistiche che il territorio ibleo può offrire». Nell’autobiografia Cipriani sono esaltate le proporzioni della galleria-studio (alta 5,4 metri), quelle definite “ciclopiche” del muro di cinta (lungo 55 metri e alto 4,6 metri) ed i giganteschi ulivi (di circa 2 metri di diametro, pari ad una età di 700-800 anni!) e le sue gigantesche mani. Una descrizione più accurata del Progetto è contenuta nell’articolo di Tiziana Blanco pubblicato il 21 febbraio 2023 sulla rivista online “Libreriamo.it”, dal titolo “Senza arte non c’è vita!”. La giornalista, autrice ad oggi di due bei testi su Di Modica (di cui riporta il concetto che «L’arte ci salverà sempre e continuerà con la sua bellezza a nutrire il mondo»), descrive minuziosamente ciò che ha visto. Innanzi tutto il viale d’ingresso, con 140 palme, di quella che sarebbe divenuta la Scuola Internazionale di Scultura ‘’Il Nuovo Rinascimento’’. Poi la monumentale riproduzione delle mani del maestro in marmo di Carrara, cui doveva fare da base una grande fontana circolare (già completata), con un marchingegno che avrebbe fatto roteare la pedana che doveva sorreggere le mani. Mani che a loro volta avrebbero contenuto i prodotti della terra, le primizie, da qui il nome di “Piazzale delle Primizie”. All’interno della fontana giochi d’acqua e i suoi delfini. I calchi in gesso di uva, peperoni e altro erano già pronti, mancava il rivestimento in marmo policromo. Poi lascia la parola allo stesso scultore:

«In uno spazio di cento mila mq sto preparando qualcosa mai vista prima in Sicilia. C’è anche un teatro costruito al contrario rispetto a quello greco. La gente vedrà le performance da sotto e le scene si svilupperanno in aria, verso il cielo». E ancora: «Il progetto è ambizioso ma io sono abituato a pensare in grande. Nella tenuta che ho acquistato nascerà una scuola internazionale di scultura, uno studio, un laboratorio, un teatro, un museo archeologico, una piazza delle “primizie” dedicata a tutti i lavoratori della terra. Poi il sogno è quello di posizionare due grandi sculture che rappresentano due cavalli. Vittoria deve rinascere partendo dall’arte perché ha tutte le potenzialità per poter diventare centro internazionale di scambi culturali e meta di viaggiatori». Centro nevralgico della Scuola Internazionale di Scultura sarebbe stato il suo laboratorio-galleria sotterranea. Di nuovo poi la giornalista fa parlare Di Modica:

«Ad oggi ho investito personalmente più di 25 milioni di euro, ma ne servono ancora molti. Investo tutto quanto di mia proprietà e, soprattutto, tempo e arte. Abbiamo bisogno di sostegno perché è compito di tutti investire sul futuro. Per ricavare parte dei fondi, saranno messi in vendita due cavalli bronzei che sto completando. Non mi fermo mai, perché fermandosi di fronte alle difficoltà, c’è il rischio di arrestarsi completamente». E poi, sempre sui cavalli:

«Avevo sedici anni quando iniziai a immaginare due cavalli grandissimi che si impennavano sopra le rive del fiume Ippari. Sono quasi pronto per la loro realizzazione. Saranno in bronzo, alti quaranta metri». Ma di essi aveva fatto un prototipo: «Ho completato due cavalli in bronzo, maschio e femmina, da otto metri, che si uniscono in un arco. Li ho chiamati “Fighting Horses”, cavalli combattenti. Si tratta di un prototipo che venderò per finanziare quelli di 40 metri da piazzare sopra il fiume Ippari che costeggia Vittoria, la mia città. È il regalo che voglio lasciare alla mia terra. Perché uno come me, che ha vissuto per 45 anni a New York, ma prima ancora a Firenze e ovunque lo portasse il cuore, le sue radici non potrà mai dimenticarle». E ancora:

«Per il 2020 è prevista l’apertura del mio museo privato nel cuore di Vittoria [in via Bari.n.d.a], vicino alla storica Valle dell’Ippari, dove saranno esposte mie opere e quelle di artisti italiani e stranieri. E senza risparmiarmi continuo con la costruzione della mia scuola d’arte personale nella mia dimora. Serve molto spazio sia per le sculture, alcune alte più di 8 metri, che per l’arena di studio». E ancora: «È arrivato il tempo per il rinascimento di Vittoria e dell’intera area iblea. Bisogna impegnarsi e non lasciare più spazio all’ignoranza e alle devianze, determinato a sensibilizzare le menti e iniziare un cambiamento radicale, a partire dalla mia terra, attraverso l’arte e la cultura. Ho sempre viaggiato molto ma con me ho portato ovunque Vittoria, inserendola, anche simbolicamente, all’interno delle mie opere. Adesso la gente dovrà venire qui, dove c’è bisogno, per conoscere, sostenere e rispettare le persone che si sacrificano per questo meraviglioso lembo dell’isola».

Parte V.  Il premio “Ragusani nel mondo”, i Vittoriesi e l’artista. 

Nonostante la grandiosità delle sue realizzazioni, di un artista come Arturo Di Modica a lungo è mancata una biografia ufficiale ed un catalogo completo. Almeno fino al 2014, quando -forse pregato dai Cipriani, che ospitavano le sue sculture nel loro ristorante- accettò di fare stampare artigianalmente una sorta di “autobiografia”. Dopo aver tracciato le fasi della sua vita artistica, nel volume (di cui la signora Rita Di Modica, nipote dello scultore mi ha dato gentilmente copia in pdf) sono raggruppate in “Serie” le sue produzioni in acciaio, bronzo e marmo. In primo luogo la serie dei “Charging Bull” (“Tori all’attacco”) di New York e del “Toro di Shanghai”; quella dei Cavalli (“Horse biting its tail”, “Stretched horse”, “Jumping horse”) con i colossali “Fighting Horses” di 8 metri, prototipo dei maggiori, quelli di 40 metri, che avrebbero dovuto svettare rampanti sull’Ippari. Quindi la “Serie Marina” (Squali, Delfini, Medusa o Trinacria con Delfini, che rappresentano i magistrati caduti nella lotta antimafia); la “Serie Erotica” (Love in space); la “Serie dei Monumenti Musicali” (in marmo di Carrara). Infine altri lavori, tra i quali “Leoni”, “Angelo con Cristo”, “Elefante”, “La Ginnasta”, “La Donna a cavallo”.

Tra la biografia, il saggio critico e il catalogo è la pubblicazione “Arturo Di Modica. The Last Modern Master”, del 2020, opera oggi introvabile perché -secondo quanto riferitomi dall’agente Harmer che però me ne inviato copia in pdf- lo stesso Di Modica avrebbe bruciato i volumi. Nel testo -arricchito da splendide foto- ci sono saggi dello stesso Harmer, della professoressa Valeria Bruni, del critico d’arte Anthony Haden-Guest ed altri.

La stessa Tiziana Blanco (della quale dovrebbe uscire un terzo articolo su Di Modica) alla fine del suo secondo scritto del 21 febbraio 2023 abbozza una sorta di catalogo, aggiungendo la foto di una miniatura del “Cristo nudo in Croce”, che lo scultore aveva intenzione di realizzare nella misura di 30 metri e da posizionare a Ragusa (il prototipo mi fa pensare ad un’analoga scultura di Michelangelo).

Il rapporto tra Di Modica e la sua terra d’origine ha avuto fasi alterne. Nel 2000 (e poi ancora nel 2010, dopo aver fuso il Toro di Shanghai) ricevette il premio “Ragusani nel mondo” (ringrazio Sebastiano D’Angelo per avermi fornito le schede e le foto). Il rapporto con la sua città natale è stato purtroppo saltuario. Dopo il dono del “Cavallo Ipparino” nel 2001, solo nel 2009 fece un’installazione davanti al teatro, dove fu esposto un monumento della “Serie Musicale”.

E se nel 2015 l’Amministrazione Nicosia gli conferì il premio “Vittoria Insigne, la sua presenza nella vita culturale della città fu rarissima, con l’unica partecipazione nel marzo 2018 alla mostra collettiva “Erotica-mente, tra i paesaggi dell’immaginario” nella Galleria d’Arte “Edoné” di via Cavour. In sostanza, pur stabilitosi dal 2012 a Vittoria, Di Modica per la maggior parte dei Vittoriesi fu e rimase uno sconosciuto fino alla morte. Solo allora -ma in minima parte- ci si è resi conto della grandezza dell’artista.

Alla fine di questo mio personale percorso verso la “scoperta” di chi sia stato Arturo Di Modica,  mi sono chiesto: ma come sono “percepite” oggi a Vittoria la sua storia e la sua vicenda?

Ben pochi Vittoriesi sanno che alla periferia della città, a poche centinaia di metri dal Mercato Ortofrutticolo, esiste un «Parco di 10 ettari, punteggiato di alberi mediterranei: ulivi, carrubi, palme. All’interno dell’area, le Gallerie del Nuovo Rinascimento, create come luoghi espositivi: più di 500 metri quadrati, oltre 9 metri d’altezza, rifiniti con la pietra di Comiso. Inoltre c’è un teatro all’aperto, con al centro una fontana; uno spazio predisposto per un laghetto artificiale e la scuola di scultura e pittura…Non è tutto: fuori dal Parco, in una casa degli anni Quaranta…verrà allestito il Museo» (Marisa Fumagalli, Corriere della Sera, 21 febbraio 2023).

Solo da qualche mese forse qualcosa si muove. L’amico Arturo Barbante mi ha cortesemente messo a conoscenza dell’esistenza di una tesi della dottoressa Angela Rizzo dal titolo “Arturo Di Modica. Il Toro che conquistò l’America” (Università degli Studi e-Campus, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2021-2022), che meritoriamente ricostruisce la figura dello scultore. La tesi è divisa in due parti: una saggistica in cinque capitoli e l’altra contenente quattro interviste rispettivamente al giovane maestro Giovanni Robustelli, allo stesso prof. Arturo Barbante, al not. Giuseppe Traina ed al dr. Giuseppe Raffa. Si tratta di un bel lavoro, che utilizza le stesse fonti da me usate (l’auto-biografia “Arturo Di Modica. Sculptor of power and vision”, Cipriani 2014 e il recente volume edito da Bruton nel 2020 “Arturo Di Modica. The Last Modern Master), oltre ad una numerosa serie di testi di Storia dell’Arte ed articoli on line. Interessanti poi le interviste, che dànno un ulteriore contributo alla conoscenza dell’artista: Robustelli parla del suo rapporto con il maestro Emanuele Cappello (anche lui vittoriese a Firenze); Barbante dell’amico e della sua formazione presso botteghe artigiane e la sua evoluzione come artista; Traina sottolinea che occorrerebbe valorizzare tutta la sua arte, oggi quasi completamente “schiacciata” dal Toro; il dr. Raffa ricorda il progetto che insieme stavano realizzando nelle scuole contro il bullismo, legato alla Scuola di Scultura.

Penso che il lavoro della dottoressa Rizzo potrebbe servire come base per una nuova e ricca monografia su Arturo Di Modica, con il pregio che essendo scritta in italiano (e debbo dire, in un buon italiano, cosa rara di questi tempi…) a differenza delle autobiografie Cipriani e Bruton che sono in inglese, potrebbe essere utilizzata per una ampia e capillare diffusione a livello locale.

Parte VI. La Città di Vittoria ed il  sogno grandioso della Scuola Internazionale di Scultura e dei Cavalli nella Valle…

Alla fine di questa mia ricerca su uno dei maggiori artisti italiani della seconda metà del XX secolo, vorrei dire qualcosa sulla questione dei Cavalli, cui è dedicata parte del quarto capitolo della tesi della Rizzo e la Scuola Internazionale. 

Come già accennato, il soggetto “Cavalli” è fatto derivare dal critico Anthony Haden-Guest dalla tradizione artistica italiana: i quattro cavalli di bronzo di San Marco (opera ellenistica in verità), i cavalli dei grandi condottieri nella scultura e nella pittura (Mantegna, Verrocchio e Gozzoli) e soprattutto il gigantesco modello in gesso del “Gran Cavallo” di Leonardo da Vinci, distrutto dai soldati francesi nel 1499 a Milano. Ma l’origine dell’idea -come dice lo stesso Di Modica- non è legata all’arte del Rinascimento, ma alla nostra terra, ad una leggenda locale. L’arrivo nel 2020 dei due cavalli di 8 metri (il prototipo di quelli più grandi) fu salutato con un manifesto pubblico curato dal dr. Giuseppe Raffa (che ringrazio per la gentile concessione della foto) in cui -sotto l’immagine dei “due cavalli in lotta”- si leggeva:

«Miti che ritornano. Leggende che risplendono, riprendono quota, illuminano gli occhi di grandi e bambini. Bagliori di arte, bellezza, tradizioni, storia. Tutto in due parole: i Cavalli Ipparini, l’ultima, straordinaria, incantevole opera di Arturo Di Modica, lo scultore del potere della visione, uno dei figli più illustri di Vittoria. I Cavalli Ipparini stanno per accendere di cultura e di magnificenza la valle dell’Ippari, culla di storia e tradizioni, la città e il territorio tutto. I Cavalli dell’Ippari, alti 8 metri ciascuno, che Di Modica ha realizzato in puro bronzo, sono i modelli di altrettante copie monumentali, dell’altezza di ben 40 metri, che una volta realizzati troveranno allocazione nel cuore della valle dell’Ippari. Lo stesso luogo dove è sorta la leggenda dei cavalli ipparini, animali veloci e possenti che da quelle parti avrebbero vissuto e proliferato».

Il progetto di installare due giganteschi Cavalli rampanti di 40 metri nel mezzo della valle (con all’interno di ognuno un museo!) nacque infatti dalla suggestione esercitata su un sedicenne dalle leggende e dalla storia dei luoghi. Di Modica immaginava un Ippari nel futuro di nuovo navigabile (in verità non lo è stato mai), che scorreva sotto i suoi due giganteschi Cavalli affrontati, a simboleggiare il leggendario allevamento di cavalli ai tempi dell’antica Camarina.

Anche questa è una leggenda, nata dai versi dedicati a Psaumis di Camarina dal poeta greco Pindaro (Olimpica V e IV) che la critica moderna, superati alcuni problemi di attribuzione, data diversamente rispetto al passato. La prima vittoria di Psaumis ad Olimpia, con il carro a quattro ruote tirato da mule, risalirebbe infatti al 488 a.C. (e non al 456 a.C.), mentre la vittoria con la quadriga tirata da cavalli sarebbe datata al 452 a.C., 36 anni dopo la prima, cosa che spiegherebbe anche l’accenno ai capelli bianchi di Psaumis. La leggenda dei cavalli si è generata dai versi in cui il poeta tebano loda Psaumis «per l’amorosa cura dei cavalli/ per l’ospitalità della sua casa/ e per il puro amore della pace», ma soprattutto dall’errata etimologia del nome del fiume Ippari, per la radice “ipp-“ intesa da alcuni studiosi come “fiume dei cavalli”, mentre l’idronimo è probabilmente di origine sicula e di significato oscuro, che non alluderebbe a nessun cavallo, bensì ad alcune piante acquatiche (Giovanni Uggeri, Camarina, Congedo 2015, pag. 23).

A parte queste precisazioni filologiche, respingo il giudizio di chi ritiene che quello dei due “Cavalli Combattenti” fosse un progetto troppo grandioso e troppo costoso per essere realizzato. A mio avviso è un peccato che Di Modica sia morto prima di poterlo realizzare. Infatti, passando in rassegna la sua attività artistica fatta di sfide che sembravano impossibili, di vittorie sul campo strappate con l’audacia, il rischio e a volte anche la temerarietà: non ho alcun dubbio che l’artista-eroe sarebbe riuscito a trovare i fondi per creare un’opera che avrebbe fatto della Valle dell’Ippari e di Vittoria un centro d’attrazione mondiale. Anche per questa sua concezione grandiosa -direi “eroica”- dell’arte e dell’artista, occorrerebbe realizzare una biografia dell’uomo e dello scultore degna di questa sua concezione “titanica” dell’artista. Arturo Di Modica «come ogni vero artista è stato estroso, coraggioso, ambizioso, generoso, provocatore: ha guardato il mondo come pochi hanno saputo fare e ha dato al mondo molto più di quello che ha avuto e visto. Un visionario della bellezza». Condivido queste parole conclusive della dottoressa Rizzo e mi auguro che i Vittoriesi tutti riusciremo ad essere all’altezza del grandioso sogno di questo nostro Concittadino. Come amava ripetere infatti: “Senza arte non c’è vita”…

Che ne sarà allora del potente e visionario sogno rimasto incompiuto per la morte dello scultore

Aprire la Scuola Internazionale di Scultura (la terza dopo quelle di New York e Carrara) sarebbe stato un onore per la città, un grandioso lascito ed un formidabile richiamo culturale. Chissà…

 

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