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a) Il Monastero nell’800

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Nascita e vicende del Venerabile Conservatorio o Monastero della Sacra Famiglia a San Giuseppe.

La ricchezza della documentazione recentemente pervenuta in mio possesso, ha reso difficile sintetizzare la storia della nascita e delle vicende dell’edificio, su cui recentemente ho pubblicato il saggio La chiesa e il Collegio della Sacra Famiglia a San Giuseppe. Le vicende del Collegio o Conservatorio o Monastero ruotano attorno alla figura di don Enrico Ricca, arciprete dal 1731 al 1784 e si può dire senza alcun dubbio che esso fu l’opera della sua vita. Come già si è visto per il Collegio di Maria a San Biagio, tutto comincia nel 1728, quando don Enrico tornò a Vittoria da Palermo, dove era stato ordinato sacerdote e si era laureato in Sacra Teologia. Arrivato a Vittoria, trovò che don Francesco Molé stava costruendo accanto alla chiesa di San Biagio un ricovero per fanciulle (vedi relativo paragrafo). Don Enrico gli suggerì di farne un Collegio di Maria, di cui aveva sperimentato la bontà dell’esperimento a Palermo. L’istituto infatti, fondato a Sezze dal card. Pietro Marcellino Corradini, era diventato un esempio di recupero delle ragazze in pericolo ed anche un modo efficace per educarle, indottrinarle ed insegnare loro un mestiere.

Nei Collegi infatti si imparavano i rudimenti dell’alfabeto, della dottrina cristiana e a tessere e a filare. Erano degli istituti in cui le insegnanti erano suore, le frequentatrici, dette convittrici, erano invece gente del popolo che la sera tornava a casa. Pertanto don Francesco Molé accolse il suggerimento e la sua creatura, accanto alla chiesa di San Biagio, cominciò a vivere la sua avventura nel marzo 1732. Nello stesso anno però accadde che si rivolsero a don Enrico Ricca alcuni degli eredi di don Giuseppe Gallo, proprietari di un immobile infestato da spiriti -almeno così si diceva-, cosa che aveva indotti i fratelli don Giuseppe e don Vincenzo Ferreri di Comiso a rinunciare all’acquisto fatto quando ancora era vivente don Giuseppe Gallo. Impossibilitati a vendere l’immobile, perché nessuno vittoriese o forestiero ne voleva sentire, gli eredi lo offrirono in vendita (a metà del prezzo con cui era stato venduto ai Ferreri, pattuito in 400 onze) a don Enrico, con l’obbligo di farne un’opera pia entro sei anni. Don Enrico decise allora di farne un Conservatorio di Orfane, di cui fu posta la prima pietra il 17 gennaio 1734. Don Enrico «con una pubblica processione intimò il popolo per assistere…portando egli il Santo Bambino Gesù ed il Rev. Sac. Dottore don  Giovanni Scrofano una pietra ed un’altra il Rev. Abbate don Giuseppe Giangreco nella seconda Domenica dopo l’Epifania dedicata al nome SS.mo di Gesù, e Maria SS.ma della Providenza». L’iniziativa fu lodata ed approvata il successivo 25 marzo dal vescovo don Matteo Trigona, che di lì a poco, il 16 maggio, venne a Vittoria a consacrare la nuova Chiesa Madre di San Giovanni Battista. Ma don Enrico pensava in grande e la sua idea era quella di creare un secondo Collegio di Maria a Vittoria, anche perché cominciò ad avere serie divergenze con don Francesco Molé nella conduzione del Collegio di San Biagio. In ogni caso, don Enrico individuò in suor Maria Teresa Scrofani la futura Superiora del suo Collegio della Sacra Famiglia, facendola ritirare nel Collegio di Maria in San Biagio «affine di istruirsi, per sapere insegnare le ragazze nella Dottrina Cristiana, ed altri manuali, e poscia passare in quella casa in San Giuseppe». E finalmente il Conservatorio fu pronto ad accogliere il 15 ottobre 1737 nove fanciulle mantenute dal fondatore. La casa era costata la somma di 3075 scudi, cioè 1230 onze ed onze 100 per gli arredi, tutto pagato da don Enrico. Nel frattempo, l’idea dei Collegi di Maria aveva preso piede in Sicilia e lo stesso governo vicereale aveva dato sin dal 1735 l’exequatur per l’applicazione in Sicilia delle norme sulla fondazione dei Collegi di Maria redatte del card. Corradini per il suo Collegio di Sezze, approvate dal papa sin dal 1717.

Quando però il vescovo Trigona introdusse nella Diocesi di Siracusa tale regolamentazione, don Enrico Ricca cominciò il complesso iter amministrativo per ottenere il riconoscimento dal vescovo della struttura da lui creata, perché essendo un istituto non di clausura, bastava l’autorizzazione vescovile. Ma, come già sappiamo essere avvenuto per San Biagio, condizione imprescindibile per l’approvazione di un istituto era la dotazione finanziaria. Il  20 agosto 1744, agli atti del notaio Giovan Battista Santangelo, don Enrico fece una duplice operazione. Dall’atto notarile appare chiaro infatti che gli obiettivi di don Enrico sono due: creare un Collegio di Maria (chiamato però Conservatorio perché privo del riconoscimento formale da parte del vescovo) ed un Orfanotrofio per ragazze, che appare l’ispirazione originaria, citata nell’ultimo atto del 1732. Pertanto don Enrico «assignavit…et concessit…dictis Conservatoriis sub titulo Sacrae Christi Familiae, ac Virginum Puellarum Orfanarum existentibus in hac praedicta Civitate…palatium existente[1] in hac praedicta Civitate et quarterio Sancti Joseph coniunctum et collaterale dictae Venerabilis Ecclesiae Sancti Joseph, et alias domos terraneas, simul coniunctas et collaterales cum dicto Palatio, constructas et aedificatas per dictum Rev. de Ricca, pro usu et commoditate dictorum Conservatoriorum, et duos hortos…», franchi il palazzo e le case, soggetti ad oneri gli orti. Per il mantenimento delle strutture, don Enrico promise ad entrambi i Conservatorii 40 onze l’anno, da pagare ogni 15 di ottobre, a cominciare dall’anno 1745 ed in perpetuo, dalle rendite basate su «illam tenutam vocata dello Passo dello Piro, e chiuse di Carusone[2]…in territorio huius pradictae Civitatis et qontrata praedicta confinantem cum territorium Nemoris Rotundi, territoriis heredum quondam Josephi Collura viis publicis, et aliis; et [illas terras in] qontrata vocata di Puzzoribaldo[3] confinantes cum terris dictae qontratae, terris aliis dicti Rev. de Ricca vocatis de Gaspanella et aliis…». Queste terre venivano pertanto “soggiogate” per poter fornire le onze 40 di dotazione. Poi, in italiano (vulgariter loquendo), si specifica:

«Et primo che in detto Palazzo di sopra assignato alli detti Conservatorii vuole e comanda suddetto Rev.do di Ricca che si intendono assignati cioè al Conservatorio della Sacra Famiglia s’intendono assignate tutte le stanze di sopra di detto Palazzo, parlatorio di dentro e fuori e sua portaria.

Al Conservatorio delle Donzelle Orfane s’intendono assignati li due corritori per sotto di detto Palazzo, che pria erano magazzeni, portaria di dentro e fuori, rifittorio, cocina, dispenza, bagli, orto piccolo; l’orto grande però e sacristia dovessero restare per uso comune per potersene servire, così li convettrice del Conservatorio della detta Sacra Famiglia, come le Donzelle del Conservatorio dell’Orfane…». Si stabiliva inoltre che la Superiora del Conservatorio della Sacra Famiglia fosse anche Superiora del Conservatorio delle Donzelle orfane.

«Item vuole e comanda sudetto Rev. de Ricca che per il Conservatorio delle Donzelle Orfane si dovrà elegere una maestra per assistere a quelle Donzelle, instruirle così nelli documenti della Santa Fede come nell’arti manuali proprie delle donne come si dirà in appresso. E come che il principale fine di detto Rev. di Ricca fundatore di detta opera pia, è stato il dare remedio alla povertà di tante donne secolari, che per non trovare di fatigare, e procaciarsi del vitto sogliono darsi a questuare elemosime con periculo della propria onestà, opure vendere il proprio onore, e però vuole e comanda sudetto Rev. di Ricca che il principale impiego del sudetto Conservatorio di dette Donzelle Orfane, colle donne secolari dovesse essere in somministrarle il materiale di canape, lino, lana ed ogni altro che si potesse filare, tessere, lavorare, e sodisfare alle dette donne secolari le di loro fatiche secondo li prezzi consueti, così in denaro come in somministrarle frumenti, legumi, ed altro a conto di dette fatighe»[4].

Per garantire il sicuro finanziamento delle onze 40 per acquistare il materiale da tessere, don Enrico in più “soggiogava”[5] la sua biblioteca e tutto l’oro, l’argento e la mobilia in suo possesso, annullando ciò che aveva deciso nel suo testamento già depositato presso lo stesso notaio Santangelo ed affinché i suoi eredi non avessero difficoltà a pagare le onze 40 dopo la sua morte dichiarava di appropriarsi di «onze 600, capitale di dette onze 40 così per la portione spettante, e pertinente ad esso come erede universale del qdm. Barone Gio. Batta Padre, Baronessa donna Giuseppa Ricca Madre, Abbate Archiprete Don Desiderio Ricca, in virtù di loro testamenti…come pure renunciatario di D.a Bonvinuta Ricca sorella, e…per ragione di legittima, ed ogn’altro titulo, che potesse de jure spettare e pertinere a detto Rev. di Ricca…». Occorrendo però una chiesa al servizio del Collegio/Monastero, don Enrico chiese ai procuratori di San Giuseppe l’aggregazione della chiesa alla nuova istituzione, cosa che fu concessa con atto notarile il 26 giugno 1747, ferma restando però la sua autonomia amministrativa. Non mancando ormai nulla, fu richiesto al vescovo Trigona il riconoscimento formale del Conservatorio, con la sua erezione in Monastero. Il vescovo, esaminata la pratica, resosi però conto che si trattava dell’istituzione di un monastero, cosa che esulava dalle sue competenze, il 20 settembre 1747 la inviò per competenza al papa, che allora era Benedetto XIV. E subito dopo, per motivi suoi, si dimise. In attesa del riconoscimento formale, anche il Venerabile Conservatorio della Sagra Famiglia secondo le Regole di Sezze per l’istruzione delle Fanciulle nella Dottrina Cristiana, ed arti manuali e mantenimento delle Donzelle Orfane in San Giuseppe fu tenuto a presentare il suo rivelo dei beni nel 1748. Toccò alla Superiora, suor Teresa di Gesù Scrofani (ma scritto quasi sempre Scrofano), sottoscrivere la denuncia, divisa in tre parti: persone, beni stabili, gravezze stabili. Al momento del censimento, risiedevano nel Conservatorio 13 suore (alcune appartenenti alle maggiori famiglie vittoriesi), 4 converse[6] e 12 educande[7]. Il patrimonio era il seguente: beni stabili per un valore complessivo di onze 1161 costituiti dal Conservatorio (il palazzo ed i locali di servizio); una chiusa di tumoli 9 adiacente al palazzo, donata dall’abbate don Giuseppe Giangreco (donazione dell’11 novembre 1732) e concessa a diverse persone come luoghi di case ed orti; le onze 40 annuali assegnate per dote e mantenimento di sette donzelle, finanziate come sappiamo già su terre irrigue del Passo del Piro e Carosone e 33 salme di terra a Pozzo Ribaldo; onze 140 per l’acquisto di lana, lino e canapa da lavorarsi, assegnate con l’atto del 23 luglio 1747; una vigna di m.ra 14 in contrada Pozzo Ribaldo, donata dal fondatore il 7 aprile 1748. Fra le uscite, i censi sulle terre ed un legato per una messa in suffragio dell’anima dell’abate Giangreco da celebrarsi alla Grazia. Dalle spese varie, apprendiamo che il Conservatorio pagava un medico (3 onze l’anno), un barbiere (onza 1 l’anno) ed una inserviente (onze 2.15). L’istituto aveva anche un procuratore, che percepiva un salario di onze 4 l’anno. 

Pervenuta la richiesta al papa, questi la affidò alla Sacra Congregazione de’ Vescovi Regolari. L’ufficio, esaminato l’incartamento, in data 12 marzo 1749 chiese spiegazioni al nuovo vescovo, mons. Francesco Testa, rilevando alcune contraddizioni nell’istanza, e cioè la discrasia tra la richiesta di erigere un Monastero con religiose professe ma con le regole dei Collegi di Maria, che invece erano istituzioni che non prevedevano né la professione a vita di tutte le religiose né la clausura.

Ma nel frattempo don Enrico si era già rivolto al nuovo vescovo il quale, senza ancora conoscere la posizione della Sacra Congregazione, il 12 maggio 1749 emanò il relativo privilegio. Nel documento è riassunta tutta la vicenda. Preso atto di tutto, il vescovo Testa concesse la sua approvazione ad erigere formalmente il Monastero, a somiglianza di quello di Sezze, estendendo ad esso le grazie, i favori e le indulgenze che il papa Benedetto XIV aveva stabilito nel 1741 per tutti gli istituti creati e da creare secondo le regole del card. Corradini. Confermò anche l’aggregazione della chiesa di San Giuseppe al nuovo Monastero. Arrivata la nota romana, il vescovo Testa concordò con don Enrico le giustificazioni, precisando che le religiose non sarebbero state monache di clausura, ma ad esse sarebbe stato solo chiesto un voto di “perseveranza” nel Conservatorio fino alla morte. Se possiamo semplificare, si disse che si chiamava Monastero ma era un Collegio di Maria… La Congregazione accettò le spiegazioni ed il 18 luglio approvò l’erezione formale del Conservatorio della Sagra Famiglia. Tutto sembrava risolto, a quel punto. Invece no. Infatti né don Enrico né il vescovo Testa avevano fatto i conti con l’oste e l’oste in quel caso erano le nuove leggi in vigore dal 1738 nel Regno di Sicilia e gli Uffici addetti alla loro applicazione, tra i quali quello dell’Avvocato Fiscale della Deputazione del Regno, cui spettava dare il nulla-osta, cioè l’exequatur, perché l’autorizzazione fosse valida nel Regno. E così l’Avvocato Fiscale don Domenico Cardillo, ricevuta la nota della Sacra Congregazione, in 16 settembre 1749 non poté fare a meno di osservare che «trattandosi di nuova erezione vietata da’ Capitoli del N.ro Regno, non può avere alcun effetto senza precedere il Regal Beneplacito; sebbene sia persuaso che V.S.Ill.ma appieno istrutta delle nostre leggi municipali, non sarebbe per permettere la erezione dell’anzidetto Conservatorio, se prima non se ne ottenga il Regio Consenzo[8]; pur non di meno per corrispondere ai doveri della mia carica, non posso omettere di far la presente a V.S. Ill.ma, e di prevenirla a non permettere che si erigga, o abbia effetto alcuno il suaccennato Conservatorio finché non sia dal Re Nostro Signore approvata, e permessa la di lui erezione, e doppo ciò offrirmi prontissimo alli bramati comandi di V.S. Ill.ma». Il vescovo Testa rispose a stretto giro di corriere, dimostrando che si trattava solo di un perfezionamento formale di una pratica avviata sin dal 1732 e non di nuova istituzione. Convintosi, l’Avvocato Fiscale del Regno, il 6 dicembre 1749 rese esecutivo il decreto del 18 luglio della Sacra Congregazione, con queste parole: «Ex quo reclusorium Sacrae Familiae Terrae Victoriae de quo agitur usque ab anno 1732 fundatum fuit, ut plene constitit tam ex contextu literarum per Rev.mum de Testa Episcopum Syracusanensem pro bono eiusdem reclusorii regimine, et gubernio expeditarum Syracusis sub die 12 Maij currentis anni 1749; quam ex testimonio eiusdem Episcopi cum eius responsabilibus literis datis sub die 22 p.p. mensis 7bris nobis porrecto; concedantur Executoriae. Cardillo M.R.F.P.».

In base al parere, il viceré duca di Laviefuille emanò l’autorizzazione così concepita:

«Et volentes nos, ut aequum est, [literas] Sacrae Congregationis, stantibus praemissis, conformes reddere, providimus…vos monemus, attenteque [h]ortamur, quatenus preinsertas literas Sacrae Congr.nis, omniaque, et singula in eis contenta exequamini, compleatis, et observetis, ac per quos decet exequi, complere, et inviolabiliter observari faciatis ad unguem iuxta earum seriem contintentiam, et tenorem pleniorem, ac de verbo ad verbum, et a prima linea usque ad ultimam, pro ut jacent; juribus tamen praeminentijs, ac jurisdictionibus regijs, Regiaeque Curiae Regiaeque Monarchiae, et alterius cuiuscumque semper salvis et illesis permanentibus et non aliter, nec alio modo pro quanto gratia regia vobis cara est. Datum Panormi die decimo octavo decembri 1749.El duque de Laviefuille».

Ma don Enrico era uno spirito inquieto e non si fermava di fronte a nulla. Ottenuta la ratifica reale, l’arciprete decise di andare oltre, per assicurare la sua creatura da tutti i punti di vista, perseguendo non solo la perfetta equiparazione del Collegio di Maria a San Giuseppe con quello di Sezze, ma tornando all’idea della costituzione di un vero e proprio monastero. Ma per questo occorreva l’autorizzazione del papa. Don Enrico capì che doveva sbrigare la pratica di presenza e si recò personalmente a Roma, per chiedere a Benedetto XIV l’autorizzazione per le religiose a fare la professione secondo l’istituto della Sacra Famiglia di Sezze, cioè con il voto di perseveranza nella struttura fino alla morte, nelle mani del vescovo o suo rappresentante. Il 6 maggio 1750, previo parere favorevole della Sacra Congregazione dei Cardinali preposta agli affari dei Vescovi e dei Regolari, il papa Benedetto XIV emanò il relativo Breve. Ma già che c’era, don Enrico chiese di trasformare il Conservatorio in Monastero, ratificando e dando maggior valore al decreto del vescovo Testa del maggio 1749. Il papa acconsentì ed emanò un secondo Breve il 12 giugno 1750. Entrambi i decreti furono ratificati a Palermo il primo il 6 agosto 1750, il secondo il 12 maggio 1751.

Don Enrico ottenne un vero e proprio trionfo, anche perché il 5 aprile 1750, in occasione del Giubileo, era riuscito ad ottenere anche la concessione della equiparazione della chiesa di San Giovanni alla Basilica di Santa Maria Maggiore, per cui i Vittoriesi avrebbero goduto delle stesse indulgenze di coloro i quali si fossero recati in visita a Santa Maria Maggiore (così leggiamo nell’iscrizione alla sinistra del portale della chiesa).
Infine, anche una grossa questione fiscale, quale l’esenzione dalla tassa sul macinato, fu ottenuta nell’agosto 1755. Insomma tutto sembrava andare a gonfie vele, ma in quegli anni don Enrico era arrivato ai ferri corti non solo con i Cappuccini (per la esclusività della questua) ma anche per il lungo braccio di ferro con don Francesco Molé. E fu dopo la morte di questi, avvenuta nel 1759, che le cose precipitarono…

A quanto si capisce infatti, al nuovo Avvocato Fiscale del Regno, don Domenico Pensabene, erano arrivate strane voci su ciò che stava accadendo a Vittoria. Mandò allora un’ispezione a chiedere se rispondesse a verità che si stava ampliando il Collegio di Maria, che don Enrico stava costruendo una nuova casa religiosa nelle Celle di Betlem per gli esercizi spirituali e di quali entrate godesse il Collegio della Sacra Famiglia. I Giurati risposero che non era vero che si stesse ampliando il Collegio di San Biagio; riferirono sulle fonti di finanziamento del Collegio di San Giuseppe e confermarono che don Enrico stesso aveva bloccato la costruzione della nuova casa religiosa in contrada Betlem. Da ciò che avvenne in seguito, si capisce però che qualcuno informò l’ispettore che il Collegio di San Giuseppe era stato creato dopo il 1738, senza autorizzazione reale. Anziché controllare nell’archivio del suo ufficio, don Domenico Pensabene, pensò bene di mandare una nota al Governo, a Napoli.

E fu così che l’11 settembre 1761 una grossa tegola cadde sulla testa di don Enrico. Quel giorno infatti gli arrivò un ordine reale in lingua spagnola del 29 agosto, trasmessogli in traduzione dal viceré Fogliani. In esso si comunicava che in merito all’affare «del Collegio di Maria fondato per V.S. nella città di Vittoria coll’aggregazione d’una chiesa sotto il titolo S. Giuseppe, ampliazione d’altro Collegio  antico, e principio di una nuova Casa fuor della Città per dare l’Esercizii spirituali alli secolari, e nella vista e considerazione del stato, nel quale detto Collegio si ritrova, [il Re[9]] ha venuto nel permettere per effetto di sua clemenza, che il medesimo sussista non ostante di aversi fondato senza il precedente suo Real beneplacito, però vuole che tal Collegio sia sempre, e si mantenga mera opera laicale senza il godimento d’immunità alcuna di luoco, ne di persone, ne di fondi che avesse acquistato, e coll’espressa condizione di redursi mai a Monastero claustrale, che per quest’effetto non può lasciarlo aggregato secondo ha ordinato nelli 15 del passato 9bre, alla pubblica  chiesa di S. Giuseppe, ne la rispettiva comunicazione colla medesima, permettendole solamente l’uso per il culto divino, e per qualsivoglia altro esercizio di pietà, corrispondente all’istituto delli Collegi di Maria e vuole ancora S.M. che per mezzo dell’avvocato fiscale si facesse un inventario delli beni, e fondi che attualmente possiede il detto Collegio, e che invigili sopra quelli che acquisterà altri di nuovo, ugualmente ha divenuto S.M. a contentarsi che niente si rinovasse circa l’ampliazione fatta per V.S. di altro simile Collegio sotto titolo di S. Biaggio, riserbandosi di dare le providenze convenenti, per quello riguarda alle fabbriche che ha fatto V.S. fuora della Città per una Casa dell’Esercizii Spirituali. Quali reali risoluzioni partecipo a V.S. per sua intelligenza e complimento nella parte toccante. Dio guardi V.S. molti anni. Palermo 11 7bre 1761. Il Marchese Fogliani a don Errico Ricca Archiprete di Vittoria». Apriti cielo! Anni e anni di fatica e di pratiche venivano annullati con un semplice tratto di penna…

Don Enrico non si scompose. Pur non comparendo mai, orchestrò il piano di difesa, facendo scrivere dalla Superiora del Conservatorio, suor Maria Teresa di Gesù Scrofani due memoriali, inviati nell’agosto 1762 uno al vescovo di Siracusa, l’altro al viceré. Nei due memoriali si respingono le accuse e si precisava «…a riflesso delle sopraccennate raggioni… quanto sia stata impostura la rappresentanza fatta alla R.M. che questo Monastero sia stato eretto doppo il 1738 e senza il Real Beneplacito, dappoiché evidentemente si conosce dalla serie del fatto l’ubbidienza del nostro Fundatore Rev. Arciprete Ricca in avere disposto la fundazione del nostro Monastero con tutte le formalità canoniche, e legali col permesso de’ Prelati, e dei Ministri Regii, che restarono persuasi non doversi impedire l’esecuzioni de’ Brevi Apostolici per la Professione, ed approvazione del Monastero sudetto. Quindi come vaglia l’affare la supplicante unitamente con tutta la Communità implora la protezzione di V.E., in che facesse sussistere il suo Monastero nello stato, che si ritrova, dappoiché avendosi già compiaciuto la Real Munificenza a dispetto delle contradizioni avanzati dagli emoli[10], stabilire, che sussista; d’uopo è che l’E.V., che presiede al Governo di questo Regno, secondi la grazia accordata, che si renderebbe frustranea, se dovrassi mettere in esecuzione la seconda parte della Real deliberazione, sinistramente informata dall’emoli, in che questo Monastero resti senza veruna immunità locale, e personale come un semplice Conservatorio laicale, dappoiché in questa posizione sarà inevitabile la totale destruzione di questa Casa, ove sono le Convettrici tutte risolute, o di restar Professe quali sono coll’autorità pontificia, o d’abbandonarla per rientrare in altri Monasteri, e li stessi di loro congionti non approveranno giammai la di loro dimora in questo luogo da dove possono uscire, quando e come vogliono, e loro sottrarranno quello devono per alimenti, ed anche il Fundatore e di [lui] eredi non saranno obligati a pagare onze 40 annuali di dote, e fundazione, perché mai il Fundatore volle far fondazione, se prima non si fosse stato assicurato della perfezione dell’opera per via del qdm. Monsignor Trigona Vescovo della Diocesi; dappoiché in esso dovranno anche collocarsi le di lui congionti». Chiedendo infine l’impegno del viceré e del vescovo per «far conoscere alla R.M. l’impostura[11] con far sussistere l’opera di tanta gloria dell’Altissimo, e bene di queste anime; molto più che questo Monastero secondo l’Instituto della Sagra Famiglia è il primo ed unico in tutto questo Regno, resta anche col peso di pagare le tasse reali come ogn’altro Monastero, né dona verun incommodo all’interessi di questa Università, se non se come tutti l’altri Monasterj e Collegj di Maria, ed è tanto utile, e necessario al bene pubblico, nell’istruzione delle ragazze, e donne ne’ misterj della Santa Fede, e nell’arti manuali; e perciò merita confirmarsi nello stato che si trova, e godere della grazia di S.R.M., e della protezione di V.E., alla quale se la presente supplica non sarà efficace d’impegnarlo a proteggerla, sarà forzata portarsi personalmente alli piedi dell’E.V., e con lagrime di sangue impetrarne quanto desidera, appoggiata alla clemenza del Monarca, al zelo di V.E. ed alle raggioni che l’assistono».

Il viceré passò la gatta da pelare alla Deputazione del Regno (formata da 12 deputati del Parlamento), la quale esaminate le carte accertò che la fondazione in questione era anteriore al 1738 e la riteneva «meritevole della Real approvazione di S.M.»[12]. Pertanto, il viceré nell’ottobre 1762 inviò la pratica alla Giunta per gli Affari di Sicilia a Napoli. E lì si arenò e non se ne seppe più nulla per ben 5 anni…

Nel frattempo, dobbiamo pensare che la vita nell’istituto continuò come prima, per come si può vedere anche nella Relazione (datata 8 settembre 1765) dei beni posseduti a quella data dal Monastero della Sacra Famiglia.  La nota è assai interessante perché si tratta di uno squarcio di luce sulla vita materiale delle collegine. Il rivelo fu fatto per disposizione del vescovo, dopo un apposito ordine del viceré. Le entrate sono costituite dall’assegnazione annua fatta da don Enrico di onze 40 più onze 7 (interesse maturato sul capitale di onze 140 per l’acquisto di materiali da tessere, calcolato al 5%), dai beni stabili (una chiusa donata dal defunto frate don Giuseppe Giangreco nel 1735 e data a censo a diversi, la vigna donata da don Enrico), da vari censi e gabelle su vigne, orti e case, dai vitalizi delle religiose conviventi nel Monastero, per un ammontare annuo di onze 202. Le uscite comprendono i censi da pagare sulle terre, ma soprattutto le spese di mantenimento delle 18 professe e 8 converse convittrici del Monastero, per un totale di 26 persone che abbisognano in un anno di onze 357. Il disavanzo, pari ad onze 155, veniva coperto dal fatto che i vitalizi erano in molti casi perpetui e continuavano anche dopo la morte delle suore, ma la cosa -dice il relatore don Filippo Ricca- non poteva durare ulteriormente e proponeva di elevare la dote del vitalizio a 12 onze annue, per coprire tutte le spese.

Il Monastero pagava salari varianti da onze 6 a 1 al confessore, al medico, al barbiere, a due lavandaie e a due inservienti, oltre che al procuratore, cui per Pasqua, Natale e San Martino venivano fatti dei regali in denaro. Oltre al medico fisico, si spendevano 12 onze l’anno di medicamenti per gli infermi, curati anche con brodo di galline (se ne consumavano 100 l’anno). Il vitto quotidiano comprendeva acquisti giornalieri di coffa[13] per onze 36 annue ma soprattutto era garantito da massicci acquisti annuali di frumento (36 salme[14]), olio (tre quintali e mezzo), riso (q.le 1 rotula 50) formaggio (quintali quattro), ricotta salata (q.li due), cacio (un quintale). Non mancavano i legumi quali fave (una salma e mezza), ceci (dieci tumuli), lenticchie (sei tumuli), fagioli (dieci tumuli); né la tonnina e le olive (di cui però non si specifica la quantità). Per impastare probabilmente dolci e le tradizionali focacce si acquistava strutto (saggime, o saimi, per rotula 50). Presente la frutta secca come noci (una salma) e mandorle (salma una), le spezie varie (pepe nero[15], cannella, garofali, zafarana). Come dolcificante veniva in genere usato il miele (un quintale), mentre lo zucchero (rotula 25) veniva usato come medicinale. Oltre ad alimenti comunissimi come il sale (salme due) ed il vino (70 barili), tra le spese troviamo quelle per l’acquisto di tabacco[16] (libbre 36), caffé  (rotula 5, cioè quasi 4 kg), cioccolata (libbre 20, cioè  quasi 7 kg) ed erbaté (oncie dodici), che è scritto unito ma per cui non ho alcun dubbio che si tratti proprio di tè (erba té): notizie queste assai interessanti per l’introduzione a Vittoria di queste nuove derrate dette coloniali.

Per la cucina si acquistavano frasche, legni e carbone per onze 16. I piatti erano di stagno e di creta, insieme con le quartare e cretame varia (probabilmente altri contenitori quali bummuli ed anche pentole di resta, cioè di creta), mentre padelle e pentoloni erano di ferro e di rame. 

Per l’igiene si acquistava sapone (un quintale), mentre il Monastero era tenuto ogni tre anni a fornire vestiario (tuniche turchine di panno, faldette, gipponi di saia imperiale, mantelline di panno, veli), biancheria e calzette di cotone, e calzature (pianelle e scarpe).

Tre onze venivano spese per l’unica festa a carico del Monastero, quella della Presentazione di Maria Santissima al Tempio nel giorno delle Candelore il 2 febbraio, per cera, mortaretti e instrumenti (musica?). Infine una spesa per l’acquisto della bolla della Santissima Crociata (una sorta di moderno buono del Tesoro) per le professe e converse a tarì 2.12 ciascuna, per un totale di onze 2.8.         

Ma ecco che finalmente si arrivò alla fine della tormentata vicenda. In data 24 novembre 1767 la Giunta per gli Affari di Sicilia a Napoli pronunciò il suo verdetto, indirizzandolo al re. Dopo aver ricostruito tutta la vicenda:

«…avendo la Giunta il tutto essaminato, e trovato, che fu in verità eretto suddetto Reclusorio prima dell’anno 1738, quando pubblicossi la legge parlamentaria proibitiva di nuove fondazioni, ed il susseguente Real Divieto, che meriti la Reale Approvazzione quell’opera: onde quando così piaccia alla M.V., può servirsi ordinare, che non si faccia riguardo alla medesima la menoma novità, essendo stata eretta prima dell’anno 1738, e del Real Divieto. Mentre rassegnatissimi sempre alle Reali Determinazioni, restiamo con pregare l’Altissimo, che benedica, e conservi la Real Persona della M.V., come tutti desideriamo etc.». Il 18 dicembre 1767, a seguito della decisione reale, pervenuta a Palermo il 5 dicembre, il viceré aveva indirizzato alla Deputazione del Regno la seguente lettera:

«Mi si significa di Real ordine per via della Real Segretaria di Stato, e del dispaccio dell’Ecc.a.

In data de’ 5 corrente, che avendosi fatta presente al Re la rappresentanza di V.S. e dell’Avvocato Fiscale del Real Patrimonio che rimessi sul ricorso della Superiora del Colleggio della S. Famiglia nella Città di Vittoria, S.M. ha risoluto che per tal pio luogo non si faccia la minima novità essendo stato fondato prima della legge projbitiva di nuove fondazioni. In seguito del real ordine lo prevengo a V.S. per sua intelligenza e adempimento…Palermo… Marchese Fogliani». Ci volle però un sollecito il 13 agosto 1768 della Superiora suor Maria Teresa Taranto, per avere una copia formale della decisione reale in merito all’avvenuto riconoscimento del Monastero. «…L’esponente umilmente prostrata a piede dell’E.V. la supplica compiacersi ordinare, che si dasse copia di sudetto dispaccio all’esponente, per il perpetuo stabilimento del suo Monastero unico in tutto il Regno secondo il vero Istituto di quello della Città di Sezze eretto dalla qdm. F[elice]M[emoria] del Cardinal Corradini, ed unico pur anche nell’erezione legale, e canonica, coll’approvazione della Congregazione de’ Vescovi e Regolari, ed approvazione del Sommo Pontefice ad instar di quello stesso della Città di Sezze, epperò in tutto dissimile dai Collegi di Maria eretti in questo Regno, consimile alli Monasterj, come si ha fatto palese alla sudetta Aggiunta [sic] di Sicilia, e sicura della grazia supplicat ut Altissimus…Sor Maria Teresa Anna Taranto Superiora». Finalmente era fatta. Che si trattasse di una bella vittoria per don Enrico Ricca, che lo ripagava di anni di angustie, è provato dal tono di una lettera a lui indirizzata il 6 settembre 1768 dal vescovo Requisens:

«Ill.mo Signore Osservandissimo

Ho provato non minor piacere di quello di V.S. Ill.ma per essersi terminata la causa di cotesto Collegio della Sacra Famiglia col reale dispaccio in termini così parlanti a di lui favore, che da uno più affezionato compatrono recepir meglio non poteasi. Ne siano lodi all’Altissimo, per essersi terminata con sì gran vantaggio. Ho letto pertanto con mio compiacimento le copie rimessemi, e da mia parte ne passi le congratulazioni con codesta Madre Superiora, alle Convittrici. Sento poi che non abbia avuto lo stesso effetto l’istanza della Casa de’ Santi Esercizij, non essendosi uniformata la Maestà del Sovrano alle Consulte favorevoli fatte dalla Giunta pella med.a ma ha pensato ella bene a non scoraggirsi, confidando nel Signore, che in altro tempo otterrà anche tal grazia..[17]. Da questa nota apprendiamo che la casa per gli esercizi spirituali collaterale alla chiesa di Betlem non venne mai autorizzata e per questo fu abbandonata.

Avendo però il tempo insegnato a don Enrico che non ci si poteva fidare, approfittando della visita del nuovo vescovo Giombattista Alagona (1773-1801) a Vittoria nel maggio 1775, il fondatore lo pregò di confermare le regole di Sezze in vigore nel Monastero, richiamandone i principali contenuti ed elencando i compiti della struttura:

«…Or l’esp.te Arciprete Ricca fundatore ricorre all’Autorità di V.E. Rev.ma nel corso della sacra visita, come Delegato Apostolico in che si compiacesse pure confimare le sud. Regole ed insieme l’atto espresso di volontà dell’esp.te che intende, e vuole assolutamente come intese, e volle, sin dal principio, che in sudetto Monastero da esso fondato sempre, ed inviolabilmente si dovessero osservare perfettamente le sopradette Regole, ristampate per ordine del fu Monsignor Trigona, e sia dopo la morte dell’esp.te in perpetuum senza che mai possa ridursi a Monastero di perpetua clausura, ma restare con quella clausura non rigorosa, ma regolata come prescrivono le sudette Regole, e coll’obbligo alle Convettrici presenti, e future, di sempre dover praticare sudetto Istituto della Sagra Famiglia soggetto al Parroco nell’amministrazione de’ sacramenti, e jus parrocchiale, coll’istruzione delle ragazze nella dottrina cristiana e nelle manifatture feminili, col ritirarle nel Monastero, per disporle alla Prima Comunione e col ritirare le donne per l’esercizj di S.to Ignazio, e ricevere nella Comunità tutte quelle donzelle, che vorranno ritirarsi in detto Monastero, per essere educate, precedendo sempre il consenzo del Capitolo, e permesso dell’Ecc.mo Vescovo della Diocesi…».

Si chiudeva così definitivamente una lunga controversia, frutto dell’inimicizia che don Enrico si era acquistato per la sua forte ostilità al Collegio di Maria in San Biagio. L’arciprete poteva così finalmente vedere la sua creazione proiettata verso il futuro, senza più ostacoli. Eppure, il maggior pericolo sarebbe venuto proprio da dove non se lo sarebbe mai aspettato e cioè dai suoi stessi eredi.  Un’antica questione corrodeva il patrimonio di don Errico e dei suoi fratelli.  È possibile ricostruire la storia dalle vicende (ampiamente documentate) successive alla morte di don Enrico. Tra i numerosi documenti, mi aveva infatti incuriosito un atto del 1728, che riguarda una presa d’atto di regolarità contabile tra il giovane don Alfonso ed i due tutori, cioè la madre donna Giuseppa Risciacchi ed il fratello don Errico. Alfonso, uscito dalla minore età, chiese il rendiconto ai suoi tutori e trovò che tutto era a posto, che l’amministrazione era stata oculata. Il secondo è un atto del 1737, di cui a prima vista non capivo il significato, ma che si spiega alla luce appunto delle notizie successive. Nell’ottobre 1737 infatti il barone don Riccardo, primogenito, assegnò al fratello parte della sua eredità, tramite il procuratore don Francesco Molé (i due quindi erano ancora in buoni rapporti). In pratica don Riccardo, subito dopo la morte del padre, aveva chiesto ai fratelli forti somme di denaro (al 4% di interesse) per potere fare alcuni investimenti (viene infatti definito mercante di Casa Aperta).

Da quello che si capisce, la speculazione andò male e don Riccardo fu costretto ad un vero e proprio fallimento, che gli impedì di restituire i soldi ai fratelli. A seguito di ciò, già nel 1731 si era fatto un accordo tra tutti gli eredi Ricca, con cui don Riccardo si impegnava a saldare il debito. Ma a quanto pare prese molto tempo e solo sei anni dopo, procedette ad assegnare a don Errico parte dell’eredità spettantegli (pari ad onze 6173) in beni immobili, ma addossandogli anche i relativi pesi (scaricandosene lui). Per questo il 7 ottobre 1737, con atto notarile, don Errico ricevette beni per 12675 onze (in terre, case, bestiame denari liquidi ed altro), su cui però gravavano pesi per quasi 10.000. Il dissesto compare anche nel rivelo del 1748. Morendo, don Enrico lasciò come unico erede, in sostanza, il fratello minore don Alfonso ed i suoi discendenti, a patto che rispettassero i suoi lasciti al Monastero e non promuovessero alcuna causa contro l’istituto, pena la decadenza dall’eredità.

Nonostante ciò, don Salvatore Ricca, figlio del marchese don Alfonso, tormentò il Monastero per anni, asserendo che don Errico aveva costruito la fondazione con i soldi dell’eredità paterna e che sarebbe stato responsabile della perdita della quota del proprio padre don Alfonso, prestata a don Riccardo per le sue spericolate operazioni finanziarie. Il Monastero, servendosi invece di numerosi documenti, dimostrò che don Errico aveva costruito il Conservatorio con soldi suoi, ereditati dalla madre (le terre di contrada Cammarana o del Passo del Pero e Carusone e quelle di Pozzo Ribaldo, da lui acquistate).  Don Salvatore uscì sconfitto sia nella vicenda della biblioteca che nelle altre questioni. In verità nel suo testamento, don Errico lasciava la biblioteca (del valore di onze 600 «fra libra e stipi») al fratello Alfonso, con l’obbligo però di venderla per completare la fabbrica del Monastero. Successivamente però, con altra disposizione al di fuori del testamento, l’assegnò direttamente al Monastero perché fosse il suo amministratore a procedere alla vendita direttamente. Don Salvatore si oppose strenuamente a questa disposizione, promosse una lite che lo vide soccombente e nonostante le numerose ingiunzioni a consegnare la biblioteca al Monastero ritardò finché poté (almeno fino al 1793). Per il resto, don Salvatore perdette sempre, rischiando anche di essere dichiarato decaduto come erede universale (morì nel 1810 e il suo monumento funerario è ancor oggi visibile a San Giovanni).

 

NOTE          

1] La forma corretta del neutro sarebbe existens
2] Estese salme 3.9 irrigue
3] Estese salme 33, comprate nel 1728 con il Privilegio delle strade Toledo e Maqueda”, concesso ai primi del Seicento per raccogliere fondi per la realizzazione delle due vie e rimasto in vigore.
4]Si trattava pertanto di una sorta di manifattura, con tanto di operaie pagate secondo i prezzi correnti e quindi senza accumulazione di surplus capitalistico: solo che il ricavato serviva ad integrare il capitale…
5] Il termine “soggiogare” indicava la destinazione di un capitale (denaro, terre, case), la cui rendita serviva per un’opera pia o a pagare un vitalizio a religiosi
6]Suor Maria Filippa Criscino, suor Maria Serafica Calora, suor Maria Battistina Cannizzo, suor Maria Agata Cultrera.
7]Angela Lupo, Rosalia Fatuzzo, Maria Pace, Rosa Lio, Rosa Ciano, Giovanna Maria Pellegrino, Giuseppa Mulé, Antonia Mangione, Rosa Carrubba, Anna Carrubba, Epifania Carrubba, Antonina Schemmari.
8]Nel Parlamento del 1738, al fine di porre un freno all’enorme espansione di opere pie e manimorte ecclesiastiche (tutte esenti da tasse), il re Carlo III aveva fatto stabilire che nessuna nuova opera pia potesse essere istituita senza preventiva approvazione reale. 
9]In verità il ministro Bernardo Tanucci che deteneva tutto il potere, in considerazione che il re Ferdinando (III di Sicilia e IV di Napoli) era un bambino di pochi anni, in quanto il padre, Carlo III di Borbone era divenuto Re di Spagna nel 1759.

10] Il duplice cenno agli emoli porta ad individuare nei direttori responsabili del Collegio di Maria in San Biagio coloro che avevano fornito (e forse chiamato) a don Francesco lo Valvo le informazioni non vere. Se ricordiamo lo scontro furibondo per la primazia sul Collegio di San Biagio tra don Francesco Molé e don Enrico Ricca, non è difficile pensare che l’accusa di suor Maria Teresa Scrofani era fondata. Non solo don Enrico perse nella sua pretesa di dover essere superiore al cappellano, ma fu colpito nella creatura cui più teneva.  
11]Cioè le errate informazioni.
12]La Consulta è firmata da l’Arcivescovo di Monreale Dep.to, il Principe di Scordia Pretore, il Principe di Butera Dep.to, il Principe della Pantellaria Dep.to, A.M. Arcivesco di Iconio Dep.to, il Principe di Aragona Dep.to, il Principe di Scordia Dep.to, il Principe delli Comitini Dep.to, il Principe di S. Vincenzo Dep.to, il Duca Pratameno Dep.to, il Marchese Salinas Dep.to, il Duca di Giampilleri Cancelliere.
13] Sporta, probabilmente acquisti giornalieri di vari generi, fra cui verdura, frutta, uova, forse anche un po’ di carne etc.
14] Qualche notizia sulle misure: una salma equivaleva a circa 215 kg, ed era formata da 16 tumoli; il quintale o cantaro corrispondeva a poco più di 79 kg, ed era fatto di 100 rotoli (ciascuno quindi di 790 grammi), mentre la libbra equivaleva a quasi  mezzo rotolo, cioè intorno a 350 grammi; il barile era invece di litri 80.
15]Compreso probabilmente nel termine generico spezzii.
16] Sarebbe interessante scoprirne l’uso, forse come medicinale espettorante…
17]Poi il vescovo accenna di avere avuto notizie «della vita degli eccl.ci del Comiso ed ho scritto a V.S. Ill.ma pel sudetto Don Angelo Lombardo, il quale attende in cotesto Scaro degli Scoglitti a menare una vita secolare, insino a pesar carrubbe, affine di farlo ravvedere…»

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